Giulio Barkee: "Collaborazione con Mundys nata da condivisione valori"Sono solo momenti«Dicono,ETF quelli che ci sono passati, che anche in guerra, anche sotto i bombardamenti, anche nella malattia più severa, nella penuria più dura, ci sono momenti nei quali la vita risplende» Condividi CondividiFacebookX (Twitter)EmailWhatsappRegala il Post(Mario Tama/Getty Images)Questa settimana mi sono capitate un po’ di cose belle. Se ne parla sempre con un certo pudore, delle cose belle, oppure non se ne parla affatto, per due ragioni fondamentali: perché si ha paura di sembrare banali, o melensi; e perché – inibizione anche più seria – nel racconto del mondo prevalgono le tragedie e gli scandali, e dunque si teme, dicendo “sto bene”, di sembrare indiscreti, stonati.Eppure dicono, quelli che ci sono passati, che anche in guerra, anche sotto i bombardamenti, anche nella malattia più severa, nella penuria più dura, ci sono momenti nei quali la vita risplende.Un lettore del Venerdì, anni fa, mi scrisse una lettera che mi è rimasta impressa come la scena di un film. Da bambino, durante la guerra, nei campi fuori Milano, suo padre lo stava portando sulla canna della bicicletta. Con un rombo assordante arrivarono gli aerei e cominciarono a cadere le bombe. Il padre buttò la bicicletta a terra e si lanciò nell’argine di un canale, tenendo stretto al petto il figlio, e attesero, sdraiati nell’erba, abbracciati, che la buriana passasse. “Non mi sono mai sentito più sicuro e più felice”, mi scrisse quel bambino ormai diventato vecchio. Ricordava ancora il profumo dell’erba. Il profumo di quell’erba.E dunque mi faccio coraggio e vi racconto. È un racconto in tre atti.*****Atto primo. Martedì scorso un amico mi ha invitato a Piacenza per assistere a una di quelle cose alle quali, in genere, è molto meglio non assistere: recita scolastica di fine anno. Ma già la sede dell’evento – il Municipale bianco, celeste e argenteo, tardo Settecento, uno dei teatri d’opera più belli d’Italia – lasciava intendere qualcosa di insolito. Beh, dire insolito è dire niente.In scena c’erano centoventi bambini, sei classi di quarta elementare. Divisi in due squadre: i mozartiani con la maglietta bianca e i rossiniani con la maglietta rossa. A guidare i due cori di bambini un tenore e un baritono – nella parte di Rossini e Mozart redivivi – e due soprano, Miss Rossini e Miss Mozart. Più l’apparizione spettrale, verso la fine, di un Don Giovanni immenso e spaventevole. Lo spettacolo, travolgente, era una vera e propria disfida a colpi d’arie celebri: Figaro contro Papageno, la Gazza Ladra contro la Marcia Turca. Il tutto tenuto insieme da un testo veloce, preciso e divertente, il dileggio reciproco tra i due geni in lotta, qualche battuta sui tempi (nostri). I due gruppi di bambini sempre in tumultuante movimento, anche fuori dal palco, per attaccare o per arretrare, perché quella che si metteva in scena era una battaglia. C’era tutto, proprio tutto quello che ci deve essere in un teatro d’opera: scenografia, coreografia, drammaturgia, regia e ovviamente musica, a ondate trionfanti. I bambini cantavano benissimo, e la composizione multietnica del grande gruppo – Piacenza è una delle città italiane con maggiore presenza di immigrati – dava ulteriore colore, vitalità e allegria all’insieme.Questa inaspettata meraviglia era resa ancora più vivida dalla sua unicità, come un fuoco d’artificio che esplode, segna di luce il nero e subito scompare: niente repliche – era “solo” una recita scolastica… A ideare, scrivere, organizzare, dirigere con una piccola orchestra di dieci elementi questo piccolo grande prodigio è un maestro di pianoforte, Corrado Casati, da sempre molto attivo nelle scuole. Quasi impensabile, per la qualità e la quantità, il lavoro suo, delle maestre, di tutti gli adulti che hanno accompagnato centoventi scolari dentro la grande musica e lo hanno fatto fisicamente, come il teatro chiede, insegnando ai bambini movimenti, ritmi, frequenze, precisioni, atteggiamenti che neppure per un istante sembravano “non da bambini”, ovvero non vissuti con naturalezza dai centoventi piccoli protagonisti.Alla fine avevo gli occhi lucidi, ma gli occhi lucidi, al teatro o al cinema, durano appena qualche attimo dopo il sipario e i titoli di coda. Il cervello, invece, è rimasto leggero e contento per tutto il giorno, e anche nei giorni successivi, come quando scopri che qualcosa funziona a meraviglia, qualche progetto ambizioso e qualche sogno d’arte si avverano, nel mondo che ci appare sempre più inceppato. C’è chi ci prova, e soprattutto: c’è chi ci riesce!*****Atto secondo. Ci sono un siriano, un indiano e un italiano che, dopo l’ennesimo fortunale e l’esondazione di un trascurabile rio che per mezz’ora è sembrato il Niagara, appena il sole torna a confortare gli uomini impauriti (hai voglia internet e l’intelligenza artificiale: quando Gea si incazza torniamo a essere le scimmie che siamo sempre stati, lo stomaco si chiude, il cuore si rattrappisce, vorremmo avere un Dio da supplicare o da bestemmiare); dicevo, al primo squarcio di sole ci sono un siriano, un indiano e un italiano che scendono a sgomberare dai detriti e ripulire dal fango una piccola strada sterrata travolta dal rio impazzito, e farla tornare pervia. L’italiano sono io.Abbiamo un trattore con grande pala anteriore; vanghe, zappe e rastrelli. Stivali. Un giubbino impermeabile che leveremo dopo mezzo minuto, perché il lavoro riscalda. Lavoriamo quasi muti, il da farsi è così evidente che non richiede parole o strategie, buttiamo i sassi più grandi nella pala, cerchiamo di colmare le buche e spianare gli accumuli di ghiaia prodotti dalla piena. Lo sguardo cerca di individuare ogni avvallamento e ogni asperità, ai danni grossi si rimedia con la pala del trattore, a quelli piccoli impugnando gli arnesi. C’è da rimettere in sesto una ventina di metri di strada sterrata. Pochi ma non pochissimi, il materiale da spostare, levare, ricollocare, spianare, si misura in decine di quintali. Senza trattore ci vorrebbe il lavoro di venti uomini, non di tre. (Anche per questo si fanno meno figli. Il fabbisogno di braccia è enormemente ridotto dalla meccanizzazione).Quando tutto è finito, e soddisfatti, fianco a fianco, guardiamo la strada ritornata strada, guardo l’ora, pensando che ce l’abbiamo fatta in un paio d’ore. Ma ne sono passate sei. Ci sono lavori materiali che cancellano il tempo perché hanno una specie di “tempo interno”: quello che va da quando iniziano a quando sono finiti, e ben fatti. Ci si dimentica di tutto il resto, quando si sprofonda in quella dimensione. E alla fine il senso di compiutezza, di avere dato forma al caos, è quasi un’ebbrezza. Ti senti in pace, quando cavi gli stivali e riponi gli attrezzi.*****Atto terzo. In una piazzetta di Pieve Santo Stefano, sotto le finestre del piccolo, intenso Museo del Diario fondato da Saverio Tutino, ascolto lo psichiatra Vittorio Lingiardi che parla, davanti a un pubblico anche lui piccolo e intenso, di un argomento bello e complicato: il dono. È il tema scelto quest’anno dal Festival dei Cammini di Francesco, che ha luogo tra le pietre e gli alberi della Val Tiberina, belli come è bella l’Italia quando è ancora bella. La sua interlocutrice è mia moglie Giovanna Zucconi, saprete sorvolare sul piccolo conflitto di interessi di questo racconto.Verso la fine della conversazione Lingiardi evoca le pagine di Philip Roth sugli ultimi giorni del padre. Malato terminale, dolente, il vecchio abbandona la tavola dove stava pranzando con il figlio, si nasconde in bagno e scarica diarrea. Fuori controllo. Ovunque. Il figlio, annichilito, pulisce. Essendo Philip Roth, definisce “eredità di merda” quella del padre, mutando in durezza e sarcasmo un atto di soccorso e di pietà. Nascondendo l’amore.La voce di Lingiardi, raccontando, si è incrinata. Si è commosso, e con lui molti del pubblico. Non c’era niente, in quel momento, che non fosse parola. Una persona raccontava, altre persone ascoltavano. Il potere della parola, benché sia un attrezzo umano (come la zappa e il trattore) è quasi soprannaturale: di offesa e di cura, di occultamento e di rivelazione. Ogni volta che ascolto qualcuno dire le parole giuste nel modo giusto al momento giusto mi sento, per contagio, meno inutile, riconosco un senso al mio lavoro e sono più contento di averlo fatto, e di farlo.A dibattito concluso, Lingiardi ha letto questa poesia del poeta polacco Czeslaw Milosz. Si chiama, appunto, “Dono”. È breve, secondo me bellissima e soprattutto mi serve per chiudere bene questa puntata fiduciosa – quasi ottimista – di Ok Boomer! Spero mi abbiate perdonato, se siete di cattivo umore, questa incursione nel mondo delle cose belle, dei momenti belli.Un giorno così felice.La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino.I colibrì si posavano sui fiori del quadrifoglio.Non c’era cosa sulla terra che desiderassi avere.Non conoscevo nessuno che valesse la pena d’invidiare.Il male accadutomi, l’avevo dimenticato.Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono.Nessun dolore nel mio corpo.Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e vele.*****Forse per compensare quanto scritto sopra, pubblico la lettera di Valentina. Dice cose che ho pensato anche io, a proposito di un fatto di cronaca molto crudo.“Stremata dalle notizie da Gaza, in cui mi sembrano riflettersi tutti gli orrori di tutte le guerre, oggi mi dispero nel leggere la notizia della bimba tredicenne calabrese. Ricoverata per sepsi puerperale si è capito essere stata lei a dare alla luce una creatura e averla abbandonata (lei o chi per lei, ma che differenza fa?) a morire (o già morta nascendo, ma che differenza fa?) dentro a uno zainetto nascosto tra gli scogli. Ma siamo davvero in Italia? È davvero il 2024? Possediamo ancora briciole di grazia umana? Possiamo davvero archiviare una notizia così con la frase ‘contesto familiare particolarmente degradato’? Cosa dobbiamo fare? C’è qualcosa che possiamo fare per questi nostri figli, per tutti questi nostri figli condannati al niente, al meno di niente, alle bombe, alla fame, alla miseria del corpo e dell’anima?”ValentinaMi sono fatto le stesse tue domande, Valentina, e mi sono risposto che possiamo fare poco. Cosa che non ci esime dal farlo, naturalmente. Forse, però, tra le cose da fare c’è anche ricordarci che benessere, welfare, protezione sociale, scolarizzazione, sono una specie di “ultimo tratto” di un percorso che definire accidentato è poco. Alle nostre spalle c’è molto peggio di quanto ancora tocca patire a chi, ancora oggi, nasce e cresce in “contesti familiari particolarmente degradati”. Hai presenti quelle rappresentazioni cronologiche secondo le quali, indicando in ventiquattr’ore la storia della vita sulla Terra, Homo sapiens arriva pochi minuti prima della mezzanotte? Beh, la civiltà arriva pochi SECONDI prima della mezzanotte. Questo non deve servirci come alibi per alzare le spalle. Ma sapere che veniamo dalle spelonche aiuta a inquadrare la questione più lucidamente: sì, veniamo dalle spelonche, e non è passato molto tempo (tre o quattro generazioni?) da quando, nei paesi più benestanti e dunque più disposti a ragionare su se stessi, ci si è resi conto che la gravidanza non deve essere un destino o un obbligo: ma una scelta. Di bambine che rimangono gravide alla prima ovulazione è pieno il mondo, e noi abbiamo il privilegio di considerarlo uno scandalo, e soprattutto uno scandalo evitabile. Non abbattiamoci, Valentina. Il mondo è un posto molto duro, e un produttore inesauribile di cattive notizie. Bisogna tenere duro anche noi, dunque.*****Confessione di impotenza. Sulla questione Occidente/Resto del mondo, e nella sua rappresentazione più attuale e drammatica Israele/Palestina, non sono stato capace di fare una selezione plausibile, rappresentativa, delle vostre mail. Posso solo comunicarvi, e mi fa piacere, che non una delle molte decine di mail sull’argomento è “impubblicabile” per faziosità o aggressività, anche quando sono schierate, appassionate, dolenti. Per me, che sono il tenutario di questo luogo fatto di parole, è un grande conforto.Nell’impossibilità di fare una sintesi bilanciata delle vostre opinioni, scelgo di sbilanciare. Pubblico solo una lettera, quella di G.G. Perché ha 25 anni, e perché mi piacerebbe molto che facesse discutere quelli della sua età. Ho detto discutere, che non è la stessa cosa di litigare.“Come tutti sanno, anche alla Statale di Milano è presente un accampamento pro-Palestina, ormai da settimane. I promotori se la prendono con il rettore che non sta dalla loro parte, ma finora nessuno è andato a sgomberarli e non ricordo occupazioni così lunghe da tanto tempo. Ho 25 anni, conosco di persona un terzo dei ragazzi accampati (non sono poi tanti): molti facevano il Manzoni (il mio, il tuo liceo), siamo andati insieme alle manifestazioni, abbiamo dormito insieme nella scuola occupata, abbiamo steso, mettendo insieme le forze, un documento lunghissimo, poi spedito al Ministero, in cui esponevamo le nostre critiche in merito alla ‘buona scuola’ di Renzi. Ho smesso di frequentare quel mondo dopo la fine della scuola. Milano è piccola però: ci si incontra all’università, nei bar; e non si perde mai di vista quello che fanno gli altri grazie ai social”.“L’orrore a cui è sottoposta la popolazione della striscia di Gaza è soverchiante. Ed è quello di tutte le guerre, a cui credo si aggiunga il disprezzo dei diritti umani. Ma voglio dirti perché non sono dalla parte dei miei vecchi compagni di scuola. Il 7 ottobre, mentre io chiamavo al telefono la mia amica di origini ebraiche che si è trasferita ad Haifa (città esempio di tolleranza, lei vive in un quartiere quasi completamente arabo) per studiare, loro festeggiavano su Instagram la ‘resistenza’ palestinese che finalmente agiva in grande. Strano: il 7 ottobre io ho pensato, per prima cosa, che stavamo assistendo alla fine della resistenza palestinese”.“Qualche tempo dopo hanno iniziato a dire che loro ovviamente non sostengono Hamas. Credo sia vero, ma la loro lettura della realtà fa come se Hamas non ci fosse. In ogni caso, non dicono mai niente su quello che è avvenuto il 7 ottobre, né sulla difficile e lunga storia della questione israelo-palestinese. Sostengono che Israele non sarebbe mai dovuto esistere, punto e stop. Non li tocca il fatto che, a prescindere da come la si pensi sulla sua origine, Israele esista da quasi un secolo, gli individui che vivono in quel martoriato pezzo di mondo si sono fatti una vita, non sono arrivati ieri, e ora il punto è come convivere smettendola con la guerra. Hanno aderito a una curva, per il semplice fatto che quella è la curva della sinistra, secondo loro”.“Ti faccio qualche esempio di ciò che pensano tramite quello che pubblicano su Instagram: ogni tanto spunta lo slogan from the river to the sea (leggasi: cancellazione dello Stato di Israele); ‘ogni palestinese è un civile anche se imbraccia le armi, un colono è un aggressore, un soldato e un occupante, esiste un colonizzatore e un colonizzato, un oppressore e un oppresso’. Semplice, no? Non si rendono conto che questa è la solita storia della colpa collettiva: tutti gli ebrei sono oppressori. Ma esattamente così dicono certi israeliani: tutti i palestinesi sostengono Hamas, i loro bambini un giorno saranno terroristi. Diceva Concita De Gregorio: di nessuno conta più la storia, la vita, ma solo le frasi estemporanee, che fanno capire se stai dalla mia o dall’altra parte”.È un problema difficile, definire o meno genocidio quello che accade a Gaza: Luigi Manconi dice che sono crimini contro l’umanità, ma genocidio no, bisogna usarlo con cautela, le parole sono importanti. Ma vai a leggerti i moltissimi commenti sotto i post in cui Elly Schlein si esprime a favore della soluzione dei due stati, e condanna l’operato di Netanyahu: troppo tardi (l’ha fatto praticamente subito, ma prima ha espresso solidarietà agli ammazzati da Hamas), dov’eri prima, perché non c’eri alle manifestazioni, devi dire genocidio!’.‘Faccio fatica a credere – e lo dico con grande dispiacere – che in loro ci sia davvero tanto dolore per la sorte dei palestinesi. Sono certo che sono indignati quando vedono i video dei bombardamenti e della gente che scappa e piange. Ma non riescono a riconoscere quanto conti per loro la sensazione di stare da una parte contro gli altri, di far parte del gruppo che ha ragione. Sanno invece che quello che stanno facendo è, come sempre, stare contro il ‘sistema’, e ogni causa è buona. Sono convinto che se davvero tutto questo partisse dal rigetto dell’orrore, i risultati non sarebbero questi. Mi sono sempre considerato di sinistra e anche radicale in qualche modo (voterò Pd, e con relativa soddisfazione). Per me è doloroso vedere dove siamo finiti. Per me la sinistra era anche l’intelligenza, una lettura più profonda della realtà. Vorrei mettere una tenda anche io, con la bandiera di Israele e quella della Palestina: due popoli due Stati, e magari un solo mondo in cui vivere insieme”.G.G.Mio solo commento alla lunga mail (e l’ho tagliata molto) di G.G.: anche io ho scritto, mesi fa, che l’unica manifestazione alla quale parteciperei è con una bandiera palestinese e una israeliana affiancate. Difatti non partecipo a nessuna manifestazione. Ma sono stato volentieri, sabato scorso, a Rondine, la formidabile comunità vicino ad Arezzo, fondata da Franco Vaccari, che si occupa, in direzione ostinata e contraria, di “risoluzione dei conflitti”. Lì le due bandiere sono affiancate. Unico posto al mondo?Mostra i commenti
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