Quei lampi di Leonardo Fabbri, il colosso atteso da quarant’anniLa suite di Giava è il titolo scelto dall’editore Iperborea per l’ultimo libro dello scrittore olandese e viaggiatore. Viene da pensare,investimenti al termine della lettura, che ha forse in parte costruito la propria vita per allontanarsi sempre di più da quel che gli piaceva meno della madre e, così facendo, inconsapevolmente, ha finito per rinvenire quel che amava maggiormente di lei fino a comprenderla. Nell’illustrazione sulla copertina c’è già tutto, ma questo il lettore lo scopre solo alla fine: la donna con il capo reclinato su un braccio e gli occhi chiusi sta vivendo, nell’inganno della memoria, i suoi anni (quattordici) più felici «nel paese più bello del mondo» che ha dovuto lasciare dopo la guerra, quando era ancora giovane e con due dei suoi tre figli. Sarà forse per questo che da allora vive sbalzi di umore e piccole depressioni. È immersa in un mare piatto come le sue terre natali dove, dopo il ritorno, ha rinunciato alla propria natura più rigogliosa e dove nascerà il suo terzo e ultimo figlio ma la vegetazione «di una magnificenza travolgente», che quasi la protegge dallo sguardo di chi non può nemmeno immaginare chi è stata, è quella delle Indie orientali. È quella dei giardini di Buitenzorg, il luogo in cui la donna si innamorò dei Tropici e che danno il nome a un movimento – «di una bellezza eccezionale» parte di una composizione di Leopold Godowski – che, come una madeleine, muove l’avvio di questo racconto a ritroso, facendo riaffiorare così «tanti ricordi» che all’autore sembrava «di avere una bufera nella testa». La storia La suite di Giava è il titolo scelto dall’editore Iperborea per l’ultimo libro di Jan Brokken, scrittore olandese e viaggiatore che, viene da pensare al termine della lettura, ha forse in parte costruito la propria vita per allontanarsi sempre di più da quel che gli piaceva meno della madre e, così facendo, inconsapevolmente, ha finito per rinvenire quel che amava maggiormente di lei fino a comprenderla, per quanto è possibile a un figlio, e sapere così di assomigliarle anche nell’abitudine alla malinconia. «Una malinconia presa in prestito». La dimostrazione, forse, che nessuno scampa alla propria madre e proprio per questo tanto vale farci i conti. Danzando il suo destino, come ciascuno di noi, Brokken scopre qual è la suite – sequenza di brani scritti per essere ballati – che gli è toccata e, associando le note al fruscio delle palme, un suono che secondo sua madre «ricorda il rumore di un rastrello che raccoglie con pazienza le foglie», si chiede se non ha forse scelto «la strada sbagliata». Il che, per un viaggiatore, potrebbe essere un fallimento. Per anni, infatti, ha creduto che le Indie appartenessero ad altri, benché «altri» con il suo stesso sangue. Ha creduto per anni che le Indie non fossero sue. Ora scrive: «Mi sbagliavo. Me ne sono reso conto quando finalmente ho trovato e riletto le lettere originali di Olga». Di scrittura in scrittura, il legame tra questo figlio e la forma di vita che l’ha generato – Olga – si fa sempre più struggente, proprio come il tono del libro (tradotto da Claudia Cozzi) in cui Brokken ricostruisce anche l’esperienza coloniale olandese che ha fatto parte della vita dei suoi genitori e dei suoi fratelli e la biografia degli uomini, e delle donne, del suo paese che più hanno rispettato quelle terre non loro e hanno provato a conoscerle, a cominciare dallo studio delle molte lingue delle differenti comunità. Così facendo, compone un ritratto di artisti, scrittori, musicisti che ricordano i suoi libri più amati, su tutti Anime baltiche, portandoci dentro i sentimenti espressi in musica da Leopold Godowski che, «per mettere l’esecutore nello spirito giusto», dava indicazioni per I giardini di Buitenzorg sull’aria «fortemente profumata» che «risveglia un desiderio doloroso e indicibilmente profondo di mondi sconosciuti» o dentro la lotta di Petta Barang «per conquistare l’autonomia» e «scacciare gli olandesi» che a torto lo consideravano «un jihadista» e invece si era «sì opposto duramente all’autorità olandese, ma altrettanto duramente aveva lottato contro gli abusi e lo sfruttamento in nome dell’islam», come arriverà a concludere uno studioso amico intimo di Olga. Lei che, «prima della partenza» per le Indie Orientali, già stabilita quando era ancora solo fidanzata, «in tre anni aveva imparato il malese» e poi imparerà il makassar (perché l’omonima città sarebbe stata la prima sede provvisoria del marito, pastore protestante), padroneggerà la scrittura brahmi – «cosa che le richiese cinque anni ma le diede grande soddisfazione. Mio padre, l’intellettuale, non ci riuscì» – e imparerà a comprendere e a «pronunciare lentamente» il buginese. Seguì anche corsi di tedesco e inglese, di storia della cultura indo-olandese, di religioni asiatiche, di pronto soccorso per i tropici e prese lezioni di organo «per poter accompagnare i canti nella chiesa» perché lei e il marito «credevano seriamente di avere una missione civilizzatrice da compiere in quell’angolo sperduto dell’arcipelago malese». A quel punto, è chiaro che la storia d’amore – non corrisposto, ma questo Olga lo capirà solo molto più tardi – finirà male. È chiaro al lettore, quasi un secolo dopo che ha avuto luogo, ed era chiaro anche ai due sposi che già a Buitenzorg «si chiedevano con un filo di inquietudine come sarebbe andata a finire». Dentro i Giardini di Buitenzorg (la musica, e l’Orto botanico) Brokken conosce meglio Olga e capisce perché, in Olanda, non aveva potuto essere la stessa donna che era stata nelle Indie orientali. E «se non sai chi è la persona che diventerà tua madre, in fin dei conti sai poco di te stesso». L’incontro Jan Brokken mi parlò del suo libro sulla madre qualche anno fa, durante un pranzo in uno dei suoi luoghi preferiti, ad Amsterdam, per un boccone veloce, sotto casa sua, affacciati su un canale. Avevo appena scritto un podcast per il suo editore italiano in cui avevo esplorato tutta la sua opera tradotta fino a quel momento. Il cibo non era un granché – ma questo a lui non lo dissi – e soprattutto ci mise molto ad arrivare in tavola, così continuammo a parlare di cosa significa scrivere della propria madre e soltanto adesso mi rendo conto che a quella conversazione devo in parte il podcast Mamma mia in cui ho esplorato le relazioni tra figli e madri e in particolare cosa succede quando la madre muore. La psicoterapeuta che mi ha aiutata a cercare le risposte, Monica Burato, mi ha scritto un messaggio qualche giorno fa in cui mi riportava un ulteriore pezzo di riflessione dopo una chiacchierata con un collega secondo il quale la madre, morendo, si porta via anche il ruolo di figlio che d’ora in poi non esisterà più. E quindi, ha aggiunto lei, se nel frattempo il figlio non è riuscito a perdonare la madre – anche solo perché, come confessa il figlio Jan, «amavo troppo la Olga in lei» ed era troppa la fatica «di conciliare quel suo aspetto con ciò che alla fine sarebbe stato il suo destino: diventare la rispettabile moglie del pastore di Rhoon» – allora diventa impossibile riconoscersi come adulti e quel ruolo perduto di figlio sarà una mancanza troppo grande da riempire. Perciò è importante che ognuno possa trovare i propri giardini di Buitenzorg in cui comprendere perché la Olga che ci avrebbe dato la vita non era più la stessa quando è diventata nostra madre. © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediNatascha LusentiÈ una giornalista, conduttrice televisiva e autrice televisiva svizzera di lingua italiana
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Riccardo Castrichini, Autore a Notizie.itETF
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