La scuola non offre soluzioni, agli adulti senza diploma non restano che i “diplomifici”Passiamo la vita a dividerci: o sei con me o contro di me. Non ragioniamo,Professore Campanella non pensiamo, però ci schieriamo. La modalità-stadio è entrata nella vita di tutti i giorni: in politica, sul cibo, sul vaccino. Ora sta contagiando pure quelle discipline sportive storicamente legate al fair play: dagli eccessi del belgi contro l’olandese van der Poel nel ciclismo, agli ultrà nazionalisti nel tennis. A Roma e adesso a ParigiC’è la guerra là fuori. Al telegiornale si parla con naturalezza di conflitto nucleare, e non è un’esercitazione e neanche un film catastrofico. Siamo assuefatti all’uso di terminologie belliche, anche quando parliamo di virus e di malattie siamo abituati a trattarli militarmente, come nemici da sconfiggere, battaglie da vincere. Il mondo si globalizza, ed evidentemente con lo spaesamento cresce il bisogno degli individui di fare parte di un gruppo, di sentirsi “noi” opposti a tutti gli altri. E non c’è forma di identità più immediata di quella che ti dà il calcio, e più di tutto la nazionale. Fare il tifo per la tua squadra in grandi eventi come i Mondiali e gli Europei è un’esperienza collettiva, anche i meno appassionati difficilmente sfuggono a questo rito. Ed è attraverso il calcio - lo sport globalmente più popolare - che il tifo e le sue modalità sono entrati nella vita di tutti i giorni. Non ragioniamo, non pensiamo, però ci schieriamo. Tifiamo per Meloni o per De Luca, per il ponte o per il traghetto, contro il vaccino o per la scienza. Per i palestinesi e dunque contro gli ebrei, per gli ucraini o per Putin, per la bistecca o per gli insetti. Passiamo la vita a dividerci, e a tifare: o sei con me o contro di me. C’è la guerra qui dentro.Il caso van der PoelC’è la guerra anche in posti nati come paradisi. Nel ciclismo si va sulle salite con le bandiere, oppure vestiti da suore, da orsi di pelouche, da babbi natale: conta essere unici, e tifare per chiunque. Quelli passano, e la gente li applaude, li incoraggia, li insegue per dividere con loro la fatica e almeno per qualche metro la platea. Non si guarda se chi è davanti a tutti è francese, sloveno o italiano.Ma anche nel ciclismo cominciano a vedersi le prime eccezioni. I fumogeni in faccia a gente che sta tirando l’anima col respiro sono un’idiozia assoluta. Quest’anno il campione del mondo su strada e nel ciclocross Mathieu van der Poel ha dominato la stagione del fango: ma in Belgio (dov’è nato e vive) in un paio di gare lo aspettavano a ogni giro per sputargli addosso e fargli i gavettoni di pipì. La sua colpa? Essere metà olandese e metà francese, in un paese dove Vlaams belang, il partito di estrema destra, vuole l'indipendenza delle ricche Fiandre dalla più povera Vallonia. E dire che questo era il cuore dell’Europa.Il tennisPrendete il tennis, quello sport dove si usava vestirsi tutti di bianco e giocare soltanto in assenza di rumori che potessero eclissare il rilassante pof pof della pallina. Sugli spalti la gente si metteva elegante, compresi i cappelli, che servivano per proteggersi dal sole ma anche per sembrare sempre a posto quando muovevi la testa a destra e poi a sinistra, a seguire il palleggio. Non si sudava, non ci si accalcava, e meno che mai ci si bagnava. Il massimo dello chic era andare d’estate a Wimbledon e ordinare le fragole con panna a due sterline e cinquanta.Da sport di élite, a un certo punto, il tennis è diventato popolare. Sono arrivati gli striscioni, gli americani sulle tribune di Flushing Meadows con gli hamburger e le patate fritte, adesso gli ultras vestiti da carote. Fino al Roland Garros, l’unico torneo dello Slam che non porta il nome del posto in cui si gioca (la scicchissima Parigi), ma di un eroe. Roland Garros non era proprio un modello per i nazionalisti: nato nell’isola di Réunion, nell’oceano Indiano, a quattro anni lo portarono in Indocina, altra colonia francese, e soltanto quando ne aveva undici approdò a Parigi per studiare.Non c’entrava molto neanche con il tennis: fu un pioniere dell’aviazione, il primo ad attraversare il Mediterraneo in aereo. Poi venne la guerra mondiale (la prima) e lui fu il primo a intuire che montando una mitragliatrice sul davanti dell’aereo poteva pilotare e sparare al tempo stesso (non ci aveva mai pensato nessuno). Morì in uno scontro aereo a 29 anni, e grazie a un amico che voleva ricordarlo in eterno dà tuttora il nome a uno dei quattro tornei di tennis più importanti del mondo.Che sta succedendo a ParigiUn torneo chic, almeno fino a poco fa. Martedì sera, il numero 1 del mondo Novak Djokovic è stato deriso da alcuni spettatori del Roland Garros per essersi spolverato via la terra rossa di dosso dopo essere caduto sulla terra battuta: la sua colpa era giocare contro un francese, Pierre-Hugues Herbert. Contemporaneamente, su uno dei campi laterali con duemila posti a sedere, il belga David Goffin, un passato da numero 7 del mondo, stava sfidando un altro francese, Giovanni Mpetshi Perricard, figlio dell’ex calciatore congolese Ghislain Mpetshi. Francesi e belgi non si sono mai amati, e martedì quella tra Goffin e Mpetshi Perricard è stata una battaglia (termine bellico) di cinque set, vinta dal belga.Gli spettatori lo hanno deriso, fischiato, addirittura uno gli ha sputato addosso una gomma da masticare. E alla fine del match Goffin ha sparato a zero (termine bellico) sul pubblico del Roland Garros, definendolo il peggiore del mondo. «Una totale mancanza di rispetto, la situazione comincia a diventare ridicola. Il tennis sta prendendo una brutta deriva, sta diventando come il calcio, presto ci saranno fumogeni, hooligans e risse sugli spalti. Se ne parla tanto negli spogliatoi, molti si lamentano. Penso che succeda solo in Francia. L’atmosfera qui è davvero malsana».Uscendo dal campo, il belga si era messo le mani alle orecchie per sentire cosa diceva il pubblico, sconfitto. «Quando vieni insultato per ore, devi infastidirli un po'». Piccati, gli organizzatori hanno cercato di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. «Il pubblico è incredibilmente entusiasta, soprattutto sui campi esterni», è scritto nel comunicato. «Tuttavia, devono mostrare pieno rispetto verso tutti i giocatori. Sono presenti organi di controllo per garantire che le regole vengano seguite». Quanto a Mpetshi Perricard, ha invece apprezzato. «È stato davvero bello avere così tanto sostegno».Il Foro ItalicoI francesi non hanno inventato niente. Il torneo di Roma non è uno dei quattro dello Slam, ma è sempre stato caldo quanto a tifo. Soprattutto quando i tennisti italiani diventano popolari: allargando il bacino di pubblico, è inevitabile prendere su qualche frangia di spettatori meno abituati al religioso rispetto dei gesti bianchi. Se il tifo «da nazionale» è sempre stato calcistico durante i match di Coppa Davis, il Foro Italico ai tempi d’oro di Panatta era una succursale del vicino stadio Olimpico. Il coro «A-driano, A-driano» fu un incubo per tutti gli avversari dell’azzurro.Con Jannik Sinner sta succedendo lo stesso: avere un potenziale numero 1 del mondo convoglia attorno al tennis la passione di un pubblico più ampio, e questo aumenta la possibilità che ci siano tifosi meno silenziosi e anche meno corretti di quelli tradizionali. Come quelli che al Foro hanno infastidito Rune nel match contro Fognini o quelli che hanno fischiato Djokovic, eliminato al terzo turno.Alle ultime Atp Finals di Torino Sinner era accompagnato da cori da stadio. Sconfinando di poco, nella snob Montecarlo i match tra Musetti e Fils e tra Sonego e Humbert sembravano derby tra ferventi nazionalisti. Sui social si criticano gli arbitri e addirittura i telecronisti troppo imparziali e dunque mai abbastanza tifosi di Sinner. Lo stesso Sinner per il quale i biglietti del Foro Italico erano andati a ruba, salvo poi essere rimessi in vendita online quando il campione azzurro ha dovuto rinunciare al torneo. Non volevano vedere il tennis, ma soltanto vincere. Possibilmente senza fare prigionieri.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediAlessandra Giardini
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